LA STORIA DELLA GASTRONOMIA POVERA
 



   Con l'avvento della dinastia borbonica a Napoli, nuovamente grande capitale del Regno, torna il grande sviluppo così come in tanti altri campi artistici e scientifici anche nella letteratura gastronomica.

   Inizialmente mentre la cucina di corte doveva ancora ispirarsi molto a quella spagnola, nel vitto del popolo cominciava sempre più a diffondersi l'uso dei maccheroni come cibo abituale anche grazie ad una coltivazione sempre crescente di pomodori che permettevano di creare squisite salse con cui condire questa pasta.
   Molto uso si faceva ancora da parte dei napoletani di erbaggi, legumi e frutta, nonché di pesci che il golfo offriva in abbondanza e di cui Goethe descrive con ammirazione le eleganti, colorate ed argentee mostre offerte nei cestini dei rivenditori.

   Col passare del tempo la cucina del re tende ad assimilarsi a quella del popolo. Anche nelle tavole dei ricchi, nei ricevimenti di gala, si faceva abitualmente uso dei maccheroni e proprio in questo periodo nasceva un piatto che sarebbe divenuto uno dei cibi della cultura napoletana: la minestra maritata.
   Questa minestra di certa derivazione spagnola era costituita da un ricco e grasso brodo di diverse qualità di carni e di salumi in cui lentamente si lasciavono insaporire tutte le squisite verdure delle paludi e degli orti vesuviani situati alla periferia della città.
   Ferdinando IV di Borbone ama cibarsi di maccheroni e si narra che durante gli spettacoli al "San Carlo" si facesse servire nel palco reale abbondanti piatti di pastasciutta che mangiava abilmente ed ostentamente con le mani, introducendoli dall'alto della bocca spalancata e divertendosi a spruzzare di salsa gli abiti di gala e le uniformi dei suoi cortigiani, che facevano buon viso e cattivo gioco.

   In questo periodo, esattamente nel 1773, un ex frate celestino del Convento di S. Pietro a Maiella Vincenzo Corrado pubblica a Napoli un celebre trattato di cucina: "il Cuoco Galante". In questo volumetto si parla di timballi, sartù, della Pastiera, chiamata anche dall'autore Torta di Frumento e della Parmigiana di Melenzane.

   Con l'avvento di Napoleone molti altri termini gastronomici di origine francese entrarono nel dialetto napoletano e fra questi: gattò, soutè, sartù, bignè e probabilmnte ragù. Decaduto il grande Bonaparte quando Ferdinando di Borbone tornò nella sua capitale, volle assumere il nome di Ferdinando I delle due Sicilie.
   Re Ferdinando continuò a gustare la cucina semplice del popolo, che intanto, cominciava a fare sempre più grande consumo delle pizze, dei meloni e dei maccheroni, sia quelli venduti già cotti per strada, sia quelli conditi in diversa maniera, che si preparavano con notevole frequenza nelle case.

   Le trattorie di Napoli erano alla fine del XIX sec. in pieno rigoglio, frequentate da un'allegra e chiassosa clientera di varia estrazione sociale che, al suono di dolci melodie e alla vista delle bellezze panoramiche della città e dei suoi dintorni, si godeva il buon cibo e il buon vino.
   La cucina delle trattorie e delle famiglie era allora in fin dei conti quella dei nostri nonni o bisnonni, costituita dalle pietanze che ancora oggi per larga parte si mangiano a Napoli.

   Illustratore sommo di questa cucina fu un aristocratico e piissimo gentiluomo, Ippolito Cavalcanti, nel suo libro intitolato "La Cucina Teorico Pratica ovvero il pranzo periodico di otto piatti al giorno".
   In questo volumetto troviamo tutte le pietanze della nostra cucina, dalla salsa di pomodoro alla zuppa di soffritto, al baccalà in umido alla trippa al pomodoro nè, ovviamente potevano mancare la minestra maritata ed il ragù.

   Allo stesso tempo, anche nelle tavole dei ricchi signori, i cibi preferiti divenivano sempre più i maccheroni, il baccalà fritto, la mozzarella, il soffritto, la caponata, le cipolle crude e la pizza; insomma, era arrivato il momento del trionfo della grande cultura gastronomica partenopea.