la cucina campana
 

Purtroppo anche i cibi, sotto la spinta livellatrice della civiltà industriale, sono andati unificandosi .Non diversamente dalla lingua. E ciò ha comportato la nascita di una "cucina italiana", vale a dire nazionale, a tutto scapito delle "cucine regionali" le quali costituivano un patrimonio di sapori particolari che rendeva molto variato, ancora trent'anni fa, un viaggio gastronomico nel nostro Paese. Donde la rinata esigenza, sempre più largamente diffusa, di "mangiare dialettale", come soleva esprimersi, con indubbia efficacia, quel maestro di pedagogia e di gastronomia che fu Luigi Volpicelli. E "mangiar dialettale " significa recuperare il gusto, oltre che la memoria, di quel retaggio di cultura e, quindi, di civiltà che sono le nostre cucine regionali, un retaggio che altrimenti rischia di andare, per insipienza e trascuratezza, irrimediabilmente perduto .Muoviamo quindi alla ricerca della genuina, schietta, tipica cucina della Campania, quella che si tramanda da una generazione all'altra, la quale potrà essere povera quanto si voglia, ma e pur sempre ricca, anzi ricchissima, di umori e di estri, di geniali trovate e di gradite sorprese. Data la ristrettezza dello spazio, segnaliamo soltanto alcuni piatti caratteristici, limitandoci a notare che essi recano in se 1'impronta di una regione fortunata per i magnifici prodotti della sua terra e del suo mare, onde 1'indovinato appellativo di "Campania felix"; recano 1'impronta delle sue nobili e gloriose, tradizioni, delle sue tormentate vicende sociali e politiche, dei propri costumi di vita che si riflettono, immancabilmente, nella cucina. E prendiamo 1'avvio dal pranzo di Pasqua che prevede tre "grandi" piatti tradizionali: la minestra maritata, 1'agnello o capretto al forno e la pastiera. Della minestra maritata, detta pure pignato grasso, se ne stava perdendo ( ahinoi ) perfino il ricordo, pur avendo dominato, incontrastata, sulle mense napoletane prima dell'avvento dei maccheroni, che risale al Seicento. Celebrata in versi, già nel '500, da Giambattista del Tufo come "buon mangiare che noi con studio assai lo solem fare" e via via decantata e descritta come "il più napoletano dei piatti" dai cultori di gastronomia campana, da Ippolito Cavalcanti a Mario Stefanile, il quale la definisce "pietanza di alto antiquariato del gusto" e, ancora,"incunabolo prezioso e raro", la minestra maritata e andata lentamente emergendo, nella realtà gastronomica napoletana, vuoi perché rilanciata dall'"Ordine napolitano del pignato grasso", costituito nel 1963 e ora purtroppo languente, vuoi perché riproposta in versioni moderne, che la rendono meno elaborata e più leggera, dai recenti autori di trattati culinari. Sicché oggi la minestra maritata e tornata in auge nelle famiglie legate alla tradizione e in parecchi ristoranti, trattorie, osterie della Campania, specie dell'entroterra, dov'e più facile trovare gli ingredienti, adatti per ammannire questo piatto invitante, buono e saporoso quasi emblema dell'estro di un popolo - come rileva Margherita Volpi - che da piccole ed umili cose, da comuni verdure e da ritagli di carne fresca o salata riesce a comporre una sinfonia di sapori, un'armonia di odori, quasi un rituale dell'unita domestica. In quanto al vino, il piatto esige un "rosso" generoso, come il Solopaca o il Lettere, il Vesuvio o il Cilento, il Falerno o il Tramonti, e via dicendo: uno dei tanti "rossi", insomma, che la Campania produce per i migliori abbinamenti possibili con le sue pietanze tipiche. Sull'agnello o capretto al forno non dobbiamo spendere molte parole perché gode di fama imperitura: la squisitezza delle tenere carni sommerse nel sugo profumato, con il gusto delle patate crogiolate al punto giusto, ne fanno un "secondo" sopraffino degno della mensa di un re. E' piatto della tradizione che resiste al tempo e celebra, intatto e intangibile, il ritorno festoso della primavera, il trionfo della resurrezione di Cristo. Sposiamolo a uno dei "rossi" sopra citati oppure ad un Aglianico del Taburno, a un Barbera di Castel San Lorenzo, a un Guardiolo, a un Ischia o Capri, soltanto rossi s'intende, ed infine (perché no?) ad un eccellente, nobile Taurasi. La pastiera, secondo Settimia Cicinnati, e una gara, un continuo sopraffarsi fra il gusto e 1'olfatto: profumatissima, morbida, dolcissima, e il dolce pasquale a cui non si resiste. Senza dubbio, infatti, questa torta e la regina della Pasqua, la festa dei piccoli e dei grandi: torta delicata e ricca, fatta di pasta frolla ripiena di grano bollito nel latte, di cannella e di zucchero, di ricotta fresca di pecora e di uova, di frutta candita e di cioccolata, il tutto profumato di acqua di fiori d'arancio. Non tralasciamo di centellinarvi su un bicchierino di liquore ai quattro agrumi o di liquore d'erbe di Montevergine o di Strega o, se preferite, di nocillo. Ma le pietanze rituali della Pasqua non sono tutte qui. Lo stesso antipasto, nel menu della ricorrenza festiva, comprende ricotta salata di Montella, salame di Secondigliano o Mugnano del Cardinale, capocollo di Giugliano, soppressata di Nola o di Benevento. E, inoltre, uova sode incastrate e cotte al forno nel "casatiello": quel pane rotondo di farina impastata con sugna, pepe, sale e"cicoli", sul quale, come dice un proverbio, "nc'iazzecca 'o bicchiariello" (ci sta proprio bene un bicchiere di vino). Anche il mare, naturalmente, fa la sua parte, ma soprattutto alla vigilia, quando carni e pietanze grasse sono bandite dal desco. Allora si svolge la fiera dei più svariati pesci del golfo, anzi dei golfi campani: dai comuni molluschi alle pregiate aragoste. Ricorderemo qui soltanto la squisita zuppa di vongole, oppure le linguine alla marinara e i polpi alla luciana, ma quelli veraci, scelti tra i più piccoli, cotti nel pentolino di creta, con olio e pomodoro, un trito di prezzemolo ed aglio, poco sale. Sono bocconcini ghiotti e fragranti, che fanno leccare i baffi ai buongustai: non meno, pero, dei classici vermicelli con le vongole che Giuseppe Marotta proclamava il suo piatto preferito e decantava con briosi versi dialettali. In quanto al vino, non c'è che 1'imbarazzo della scelta tra i tanti bianchi pregiati della Campania: dalla Falanghina dei Campi Flegrei al Greco di Tufo, dal Fiano di Avellino al Biancolella d'Ischia, dal Ravello della Costa d'Amalfi al Lacryma Christi del Vesuvio, e cosi continuando. Ma la gastronomia della Campania non si esaurisce ovviamente in questi piatti rituali della Pasqua. Con il risveglio della natura, essa si arricchisce dei freschi prodotti della terra, specialmente ortaggi e verdure, e s'insaporisce di quegli aromi - sedano e rosmarino, prezzemolo e basilico, menta e origano - che, come ricorda Vittorio Gleijeses, usati con larghezza, in sapienti miscugli, in abili triti, con un innato sfruttamento artistico del colore, danno sapore e piacevolezza ai cibi più semplici e modesti. Che dire, poi, dei prodotti caseari"dalla mozzarella al caciocavallo, dal burrino alla scamorza, che raggiungono un alto grado di raffinatezza per la bontà dei pascoli rinnovati, mentre il mare diviene più pescoso lungo la fascia costiera, dalla foce del Garigliano fino a Sapri, e il pesce guadagna in gusto ciò che perde in grasso? E' tempo, ora, di percorrere itinerari gastronomici che, dalla costa spingendosi verso 1'interno e dall'interno ritornando alla costa. tramano una fitta rete di piacevoli scoperte culinarie - una specie di surreale geometria gastronomica - capaci di esaltare la cucina partenopea-campana nella sua poetica, versatile, rurale semplicità. Prima che avanzi 1'estate, troveremo ancora una gustosa Lasagna imbottita, quel "monumento barocco di prodigalità fantastica" come qualcuno la definii; oppure un robusto Timballo di maccheroni che ha per degno confratello il solenne Sartu di riso, un piatto napoletanissimo che di francese ha solo il nome. Ma troveremo sempre, anche d'estate e nelle molteplici varianti locali, Cannelloni e Gnocchi, Fusilli e Orecchiette, Lagane e fagioli, Risotto alla pescatora e Zuppa di ceci, Minestrone e Paccheri al ragù. E non e tutto, naturalmente, per quanto riguarda i "primi". Sui "secondi", poi, non la finiremmo più, incerti tra una sontuosa Braciola al ragù e due Salsicce con friarielli, un Mussillo di baccalà e una Costata alla pizzaiola, una Grigliata di pesce e una Bistecca al re Franceschiello, specialità di Caserta, un Cinghiale di Calitri alla contadina e un Sarago al forno, un Coniglio all'ischitana e un Pollo all'avellinese, due Peperoni di Nocera imbottiti e due Quaglie con piselli alla mondragonese, due Calamari all'amalfitana e tre Saltimbocca di Sorrento. I vini giusti (bianchi, rosati e rossi) per celebrare nozze felici con questi piatti ce ne sono, e come., per cui in Campania non esiste "buon mangiare" senza, contemporaneamente, "buon bere". Circa gli ortaggi e le verdure, rischieremmo di perderci nel "mare magno" di melanzane e peperoni, spinaci e patate, carciofi e pomodori, zucchini e scarole, piselli e fagiolini, broccoletti e insalate, che stimolano 1'estro a inventare contorni e pietanze di nuovo genere. E senza indugiare sulla bontà dei formaggi, freschi o stagionati che siano, sui quali domina la mozzarella che ha la patria proprio qui, in Campania, nelle piane del Volturno e del Sele; e neppure sulla frutta tanto varia e saporosa di questa regione verace, puntiamo di corsa sui dolci che fanno degna corona a sua maestà la "Pastiera". E potremo gustare, allora, la classica Zeppola di San Giuseppe e il non meno classico Babà, la Cassata napoletana e i Cannoli con la ricotta, il Montebianco (dolce di castagna e panna) e la Torta di crema e fragole, il Soffiato di Albicocche e gli Struffoli. Ma una gita può essere giustificata anche dall'interesse o desiderio di conoscere sul posto qualche "specialità" locale più o meno ignota e più o meno inconsueta: e allora possiamo recarci a Maiori (SA) per gustare le melanzane con la cioccolata (un piatto eccezionale di alta pasticceria) e ad Amorosi (BN) per il sanguinaccio dolce; a Statigliano (CE) per il ricercato formaggio Saticulano di gusto piccante e a S. Antimo (NA) per il rustico "Samurchio"; ad Avellino per un piatto di "pacaturelle" (involtini e coratella di capretto) e li vicino, ad Ospedaletto, per uno di "pepaine" (peperoncini con patate e costolette di maiale); a Ricigliano (SA) per un piatto sacrale di "cuccive" (a base di grano, fave e ceci cotti) e a Calabritto (AV) per le fritelle di castagnaccio, a Morcone (BN) per la "zaonda" (un buon piatto contadinesco) e a Battipaglia (SA) per le mozzarelline di bufala alla panna; a Bagnoli Irpino (AV) per 1'insalata con tartufo e a Monteforte (AV) per la tortiera di ovoli: E ancora, a Ravello (SA) per i soavi crespolini alla ricotta e a Bisaccia (AV) per 1'abbacchio e gli asparagi; a Grazzanise (CE) per la "paparara" (oca ripiena al forno) e a Frigento (AV) per i cavatelli con broccoli di rapa; a Benevento per i carciofi alla mozzarella e a Roccadaspide (SA) per i "raffaiuoli" con il sugo di salsiccia; a Corleto Monforte (SA) per le scarole imbottite e a Pietrelcina (BN) per le tagliatelle al ragù di carciofi; a Dentecane (AV) per un soave torrone dai molti gusti e a Petina (SA) per un delizioso liquore o gelato alle fragoline di bosco. E potremmo continuare ancora per molto, nell'indicare le soste di un itinerario gastronomico assai dilettevole, se qui non dovessimo far punto. Non senza, però, aver prima ribadito la nostra convinzione che la cucina campana, in sè povera e frugale, eccezion fatta di qualche pietanza festiva e fastosa, è tuttavia ricca d'inventiva; la qualcosa dimostra che il napoletano - campano è un buongustaio di non facile contentatura, il quale, nonostante la modestia delle risorse, sa mangiare. E se ciò è vero, come crediamo, gliene rende merito quell'aforisma di Brillat Savarin, il fisiologo del gusto, che sentenzia: "Gli animali si cibano, l'uomo mangia, solo la persona intelligente sa mangiare".